Antonio Conti

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Pur con le radici ben salde tra i fiumi Foglia e Cesano, venni trapiantato a quattro anni a Ivrea. Un luogo non ricchissimo di stemmi monumentali, ma che a Carnevale esplode in una moltitudine di emblemi e colori (ispirati ad epoche diverse, con storiche origini  o inventati il giorno prima) apparentemente affastellati ma in realtà pienamente inquadrati nel palinsesto di una manifestazione che definire carnevale delle arance è un insulto. Sarà stata quella visione strabiliante ad attirare la mia attenzione verso gli stemmi? E’ probabile. Il più antico stemma conservato nella cartellina dei miei disegni di bambino risale agli _ anni. Uno scudo con una vistosissima corona. Sarà stato il primo? Chissà, ma nei giochi di bambino ne ho disegnati tanti altri: come distintivi, sulle mappe del tesoro, sulle bandiere di cento imprese per i boschi, lungo il fiume o tra i cantieri dei condomini in costruzione. A otto anni realizzai la bandiera per la squadra di calcio della 4a A: bianca con al centro un minuscolo scudetto rosso alla croce di nero… insomma dovevo migliorare. A sedici anni, gli stemmi, gli emblemi mutarono segno. Su striscioni, cartelloni, volantini dipinsi e disegnai con tratto grossolano (mai migliorato) l’emblema della mia vocazione, i simboli di nuove imprese, lotte e campagne. L’araldica appariva più lontana, dimenticata, ma era in realtà come sottointesa. Dopo l’impegno negli anni dell’adolescenza, all’università mi sono rifatto e l’araldica è riemersa nella Goliardia. Luogo ove la parodia del potere regna sovrana, con tutti i simboli del caso. Come un novello vescovo, divenuto nobile dell’urbinate Maximus Ordo Torricinorum dovetti dotarmi di uno stemma, in realtà non aspettavo una scusa migliore! Il nome goliardico Bubo Laboriosus e il felice incontro a Portobello Road con una matrice tipografica con un gufo tra due rami d’alloro portò, nell’estate del 1990, alla realizzazione dello stemma che sta qui accanto. I colori sono quelli del comune di Ravenna, scelta come patria cromatico-araldica perché all’epoca lì risiedevo con i miei. Il motto non è in latino, ma in un italiano vagamente volgare, perché riprende un passo del I Canto del Purgatorio: “Or ti piaccia gradir la sua venuta: / libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta”. Quella libertà cercata era il sottotitolo di una rivista universitaria del 1925 pubblicata dall’Unione Goliardica per la Libertà. Per farla breve mi piacque e sta lì da undici anni.