Canonici regolari di Sant’Antonio di Vienne


Canonici regolari di Sant’Antonio di Vienne

I Canonici regolari di Sant’Antonio di Vienne erano un famoso ordine ospedaliero e monastico-militare medievale che prendeva nome dalla città francese di Vienne, nel dipartimento dell’Isère, presso la quale si trova ancora oggi la casa madre: la monumentale abbazia del villaggio di Saint-Antoine-l’Abbaye, fondata per accogliere le reliquie di sant’Antonio Abate.

 

Queste erano state portate in Francia dal nobile Jocelin de Chateau Neuf, di ritorno nel 997 da un pellegrinaggio in Terra santa. Secondo la tradizione gli sarebbero state donate direttamente dall’imperatore di Costantinopoli. Le spoglie del Santo furono interrate nel villaggio di La-Motte aux Bois, non lontano dal piccolo paese di Saint Marcellin, che in seguito muterà il nome in Saint-Antoine-l’Abbaye.

Nel 1070, Ghigo di Didier, discendente del nobile Jocelin, fece costruire una chiesa per custodire le reliquie e onorarle degnamente, fino ad allora semplicemente interrate. Esse divennero oggetto di devozione popolare e di pellegrinaggi soprattutto per la guarigione dal fuoco di sant’Antonio (una malattia virale, nota come ergotismo, o herpes zoster, che ha come sintomo un forte bruciore cutaneo associato talvolta a manifestazioni impressionanti: come convulsioni e deliri).

L’arcivescovo di Vienne, vi installò, nel 1083, un gruppo di benedettini provenienti dall’abbazia di Montmajour (vicino ad Arles) con il compito custodire il luogo, celebrare i riti e assistere i pellegrini.

Nel 1095 sorse una comunità laicale con fini ospedalieri, a seguito di un ex voto del nobile locale Gaston de Valloire che aveva avuto un figlio guarito dall’ergotismo, per grazia ricevuta al santuario di Saint Antoine. Egli, assieme al figlio e ad altri cinque nobili del Delfinato, formarono il primo nucleo di una confraternita laica a fini ospedalieri, che seguiva la regola di Sant’Agostino, e che venne istituita da papa Urbano II nel 1095, durante il concilio di Clermont e confermata da papa Onorio III con bolla del 1218. L’Ordine in origine era formato da infermieri e frati laici che si occupavano dei malati e dei pellegrini e che avevano come superiori religiosi i benedettini di Montmajour che si occupavano del culto e della gestione del santuario.

 

I monaci fecero costruire nel 1119 una chiesa che venne consacrata dall’arcivescovo di Vienne, Guy de Bourgogne (futuro Papa Callisto II) così che il villaggio mutò nome in La Motte Saint Antoine. La consacrazione avvenne sotto la triplice protezione della Santissima Trinità, della Vergine Maria e di Sant’Antonio Abate.

 

L’Ordine si sparse, infatti, rapidamente in tutta Europa, soprattutto lungo la Via Francigena che collegava il territorio francese del Delfinato con Roma. Nella bassa Val Susa, presso Torino, si trova una delle loro “case” più note: l’Abbazia-Precettoria di Sant’Antonio di Ranverso, sorta prima del 1188. Altri “ospitali” importanti furono quelli di Roma, Teano, Napoli e Brescia.

A Roma, papa Innocenzo IV, nel 1253, invitò gli antoniani ad allestire “l’ospedale mobile” della Curia romana che era incaricato di seguire il papa nei suoi spostamenti. Alla fine del XIII secolo l’Ordine era presente, oltre che in buona parte dell’Europa, anche a Cipro, Costantinopoli, Atene, in Svezia, in Ucraina e persino in Etiopia e nei paesi dei Tartari. Nell’ultimo decennio del secolo XIII venne anche definitivamente risolta la questione della sottomissione ai Benedettini. Il diciassettesimo gran maestro dell’Ordine, Aimone de Montany, riuscì a ottenere il priorato sull’Ordine intero con bolla papale del 9 giugno 1297; da quel momento, il gran maestro divenne il primo abate generale dell’Ordine degli antoniani, riferimento per tutte le commanderiesparse per il mondo. Il capitolo generale tenutosi nel 1298 approvò la nuova regola, conforme ai canoni agostiniani e mutò il nome in Ordine dei canonici regolari di Sant’Antonio di Vienne, i benedettini di Montmajour, con quali spesso si erano verificati accesi contrasti, vennero allontanati. I monaci antoniani erano facilmente identificabili dall’abito, che consisteva in una tonaca nera con una grande ‘tau’ azzurra, detta la “potenza di Sant’Antonio”, cucita sulla sinistra del petto, che li fece indicare come “Cavalieri del Tau”.

 

Ma i membri dell’Ordine, erano chiamati anche “cavalieri del fuoco sacro” (per essere nel tempo divenuti esperti nel trattamento della malattia), si dedicavano alle cure degli ammalati di ergotismo che cercavano conforto presso i vari santuari di Sant’Antonio abate dipendenti dalla casa madre in tutta Europa. In area italiana erano detti anche Frati Antoniani, Antoniani Viennois, Cavalieri di Sant’Antonio di Vienne (talvolta corrotto in “Vienna”), essendo la denominazione di “Cavalieri del Tau” riservata ai frati dell’Ordine Ospedaliero di Sant’Jacopo di Altopascio.

 

L’Ordine viveva essenzialmente di elemosine e lasciti che causarono spesso abusi e scontri con gli altri Ordini per la gestione di immensi patrimoni. Lo stesso Dante, in uno degli ultimi canti della Divina Commedia, prende di mira gli antoniani, evidentemente molto attivi e spesso insistenti nella richiesta di elemosine e scrive: “di questo ingrassa il porco Sant’Antonio/ e altri assai son ancor più porci, / pagando di moneta senza conio” (Paradiso, canto XXIX, vv.124-126).

 

Ma a partire dal XVII secolo il fenomeno dell’accorpamento degli ospedali gestiti dai vari Ordini e il miglioramento delle condizioni igieniche in Europa (che portarono alla scomparsa delle grandi epidemie che avevano flagellato il vecchio continente nei secoli precedenti), fecero venir meno la stessa ragione d’esistere degli antoniani, sempre più divisi da dispute e conflittualità interne. Così nel 1774, due anni prima della soppressione dell’Ordine, venne decisa dal Capitolo generale degli antoniani l’unione con l’Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni di Malta che si prefiggeva, anch’esso, fra i suoi scopi, l’assistenza e la cura dei pellegrini.

Il 17 dicembre 1776 papa Pio VI con la bolla Rerum humanarum conditio sancì definitivamente l’abolizione dell’Ordine antoniano i cui beni passarono in gran parte all’Ordine di Malta e, nel Regno di Napoli, all’Ordine Costantiniano di San Giorgio. Nel 1776 erano ancora formalmente attive quasi mille “case”, delle quali un centinaio distribuite in tutta l’Italia. Dopo la soppressione dell’Ordine nel 1890 ai Canonici Regolari dell’Immacolata Concezione fu assegnata l’Abbazia di Saint Antoine, che fu la casa madre anche per quella Congregazione. Mantenne tale ruolo dal 1890 fino al 1903, quando, in seguito alle leggi anticlericali varate dal governo francese nel 1901, la comunità fu trasferita ad Andora, in Liguria.

 

Le fondazioni antoniane, oltre agli edifici monastici, comprendevano sempre un ospedale (spesso a qualche distanza dall’abbazia, per ragioni di sicurezza), dove si prestava l’accoglienza dei viaggiatori e dei pellegrini e la cura dei malati. L’edificio de l’”hospitale” era un edificio spartano che comprendeva una cucina con la mensa, i dormitori, una cappella e alcuni locali di servizio. Qui all’ospitalità si affiancava la cura delle malattie che colpivano i pellegrini durante il loro viaggio. Con il tempo questa funzione divenne prevalente, tanto che dall’hospitale medievale (non solo antoniano) è derivato l’attuale significato di ospedale.

 

Come detto, la malattia che l’Ordine antoniano curava in modo specifico era l’ergotismo conosciuta nel medioevo con il nome di «fuoco di Sant’Antonio», molto diffuso tra i poveri a causa della cattiva alimentazione, che era provocato soprattutto dall’ingestione di segale cornuta (veniva così chiamata la segale contaminata da un fungo che sviluppava un alcaloide che provocava l’intossicazione). Gli antoniani usavano soprattutto il grasso di maiale come emolliente per le piaghe provocate dal fuoco di Sant’Antonio, per questo nei loro possedimenti allevavano spesso i maiali che simbolicamente venivano raffigurati anche nelle chiese dell’Ordine. Per questo motivo le immagini di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali domestici in generale, vedono sempre un “maiale” al suo fianco (al punto da farlo identificare popolarmente come “sant’Antonio del porcello”).

 

Lo stemma dell’Ordine dei Canonici Regolari di Sant’Antonio Abate, dal 1502 si blasona: “D’or à l’aigle bicéphale, à l’écusson d’or chargé d’un tau d’azur surmonté d’une couronne d’or, brochant sur le tout.” (D’oro, all’aquila bicefala di nero, allo scudo d’oro caricato da una Tau d’azzurro e sormontato da una corona d’oro, attraversante sul tutto). Compare in questa forma nell’Armorial Général de France, di Charles D’Hozier (edizione del 1696, volume XI, Dauphiné, généralité de Grenoble, folio No. 173).

Questa è la versione “aulica” dello stemma antoniano, concessa dall’imperatore Massimiliano I all’Ordine nel 1502 e che ha sostituito quella più antica e più semplice che è lo scudetto che si vede attualmente accollato all’aquila (“d’oro alla Tau d’azzurro”) o un’altra, forse ancora più antica: “di nero al Tau azzurro, accompagnato dagli attributi di Sant’Antonio Abate: un bastone pastorale ricurvo, un bastone da pellegrino con campanella e il fuoco”.

 

La scelta del Tau (“T”) come emblema è ancora oggetto di controversie e si basa su diverse ipotesi tuttavia non in opposizione tra loro. Il Tau è la rappresentazione della “vera” croce di Cristo, nella forma effettivamente usata dai romani per il supplizio dei condannati. 

È l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico e ha valore simbolico nell’Antico Testamento: “Il Signore disse: passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un TAU sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono.” (Ez. 9,4). “È un segno di potente protezione contro il male.” (Ez. 9,6) richiama anche il bastone a forma di stampella su cui si appoggiava Sant’Antonio durante il suo eremitaggio, e come stampella è anche un simbolo ospedaliero.

Anche san Francesco d’Assisi e, successivamente, i francescani adottarono il tau come simbolo, ma non compare nel loro stemma.

Anche san Giovanni Gualberto, fondatore dei Vallombrosani, usò una stampella come insegna, che divenne simbolo di quella Congregazione benedettina.

 

Il “Tau” era il simbolo degli antoniani, probabilmente venne scelto perché, oltre a ricordare la croce del supplizio romana (che era priva del braccio ascendente), rassomigliava anche alla stampella usata dagli ammalati e dallo stesso Antonio durante il suo duro eremitaggio nel deserto e alludeva alla parola “thauma“, che in greco antico significa “prodigio” (Sant’Antonio è un potente santo “taumaturgo”). Secondo altre fonti, essendo la lettera tau l’ultima dell’alfabeto ebraico, essa indicava le cose ultime sulle quali sant’Antonio sempre meditava.

Per affrontare la malattia gli antoniani allevavano un gran numero di maiali, che si riconoscevano per una campanella legata al collo e che venivano rispettati dalla popolazione, il loro lardo veniva impiegato nei massaggi per alleviare i dolori dell’herpes e far guarire le cancrene.

 

Un altro simbolo dell’Ordine era la campanella, con la quale gli antoniani annunciavano il loro arrivo durante gli spostamenti e le questue, i monaci allevavano maiali, dai quali ricavavano il grasso per la cura dell’ergotismo, i quali vagavano liberi e muniti di un collare con campanella, la popolazione rispettava questi animali e, anzi, contribuiva al loro sostentamento. Simboli che, col tempo, sono diventati attributi dello stesso sant’Antonio abate a cui tradizionalmente è associata anche l’immagine del fuoco, sia in virtù del potere taumaturgico del santo nella cura dell’ergotismo, ma anche perché secondo la tradizione popolare il santo abate è custode dell’inferno, da dove sottrae le anime dannate, ingannando i diavoli con abili stratagemmi, dato che resistette alle feroci tentazioni e tormenti ai quali il demonio lo sottopose durante la sua vita.

 

Sant’Antonio Abate, chiamato anche sant’Antonio il Grande, o sant’Antonio d’Egitto, e ancora sant’Antonio del Fuoco, sant’Antonio del Deserto e sant’Antonio l’Anacoreta, nacque a Qumans (l’antica Coma), il 12 gennaio 251 e morì nel Deserto della Tebaide, il 17 gennaio 356.

 

È considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati; a lui si deve la costituzione in forma permanente di famiglie di monaci che sotto la guida di un padre spirituale, o abbà (da abbas; padre), si consacrarono al servizio di Dio. La sua vita è stata tramandata dal suo discepolo Atanasio di Alessandria.

È uno dei quattro Padri della Chiesa d’Oriente che portano il titolo di “Grande” insieme allo stesso Atanasio, a Basilio e a Fozio di Costantinopoli. È ricordato nel Calendario dei santi della Chiesa cattolica e da quello luterano il 17 gennaio, ma la Chiesa ortodossa copta lo festeggia il 31 gennaio che corrisponde, nel suo calendario, al 22 del mese di Tobi.

La vita di Antonio abate è nota soprattutto attraverso la Vita Antonii pubblicata nel 357 circa, opera agiografica scritta da Atanasio, vescovo di Alessandria, che conobbe Antonio e fu da lui coadiuvato nella lotta contro l’arianesimo. L’opera, tradotta in varie lingue, divenne molto popolare tanto in Oriente quanto in Occidente e diede un contributo importante all’affermazione degli ideali della vita monastica. Grande rilievo assume, nella Vita Antonii, la descrizione della lotta di Antonio contro le tentazioni del demonio.

Un significativo riferimento alla vita di Antonio si trova nella Vita Sancti Pauli primi eremitae scritta da san Girolamo negli anni 375-377. Vi si narra l’incontro, nel deserto della Tebaide, di Antonio con il più anziano Paolo di Tebe. Il resoconto dei rapporti tra i due santi (con l’episodio del corvo che porta loro un pane, affinché si sfamino, sino alla sepoltura del vecchissimo Paolo per opera di Antonio) vennero poi ripresi anche nei resoconti medievali della vita dei santi, in primo luogo nella celebre Legenda Aurea dell’arcivescovo di Genova, Jacopo da Varazze.

 

Il gruppo dei seguaci di Antonio si divise in due comunità, una a oriente e l’altra a occidente del fiume Nilo. Questi Padri del deserto vivevano in grotte e anfratti, ma sempre sotto la guida di un eremita più anziano e con Antonio come guida spirituale. Antonio contribuì all’espansione dell’anacoretismo in contrapposizione al cenobitismo.

Ilarione (291-371) visitò nel 307 Antonio, per avere consigli su come fondare una comunità monastica a Majuma, città marittima vicino a Gaza dove venne costruito il primo monastero della cristianità in Palestina.

Nel 311, durante la persecuzione dell’imperatore Massimino Daia, Antonio tornò ad Alessandria per sostenere e confortare i cristiani perseguitati. Non fu oggetto di persecuzioni personali. In quell’occasione il suo amico Atanasio scrisse una lettera all’imperatore Costantino I per intercedere nei suoi confronti. Tornata la pace, Antonio, pur restando sempre in contatto con Atanasio e sostenendolo nella lotta contro l’arianesimo, visse i suoi ultimi anni nel deserto della Tebaide (presso Tebe) dove, pregando e coltivando un piccolo orto per il proprio sostentamento, morì all’età di 105 anni il 17 gennaio del 356. Venne sepolto dai suoi discepoli in un luogo segreto.

 

Il vasto complesso della chiesa abbaziale di Saint-Antoine l’Abbaye, considerata uno dei più prestigiosi esempi di architettura gotica del sud-est della Francia, venne edificata tra il XIII e il XV secolo e conserva una ricca collezione di oggetti sacri. L’edificio del Noviziato, ricostruito tra il XVII e il XVIII secolo, al posto dell’antico edificio medievale, ospita oggi il museo dipartimentale.

L’abbazia continuò ad essere meta di numerosi pellegrinaggi per tutto il Medioevo e il Rinascimento, con visite di re, principi, nobili benefattori, da tutta Europa.

Lo storico antoniano Aymar Falco riportò che papa Clemente VII e due cardinali futuri papi, Giulio II e Leone X, avevano visitato il santuario; durante il 1514 si registrarono più di diecimila italiani in visita e, negli anni successivi, moltitudini di pellegrini dall’Ungheria e dai paesi limitrofi. Nel 1517, la marchesa di Mantova Isabella d’Este visitò l’abbazia durante un pellegrinaggio in Provenza. Il viaggio è riportato dall’umanista Mario Equicola nella sua opera Iter in Narbonensem Galliam, dove descrive anche la presenza di uno strumento musicale a canne dotato di automi, riportato anche nel coevo diario di viaggio del cardinale Luigi d’Aragona. Realizzato nel 1515 lo strumento è andato distrutto con le guerre di religione in Francia, sostituito in seguito da un imponente organo di epoca barocca, tra il 1620 e il 1625, realizzato dal canonico antoniano Jean Astruc, e posto sulla tribuna all’ingresso della chiesa. Un altro organo positivo (cioè “portatile”), posto di fronte al grande organo, fu costruito intorno al 1640 dall’ebanista Jérémie Carlin. Rimossi nel 1805, per essere collocati nella chiesa di Saint Louis di Grenoble, gli organi tornarono al loro posto solo nel 1982.

Una parte dell’abbazia è oggi casa d’accoglienza e sede della “Comunità dell’Arca di Lanza del Vasto”, filosofo cattolico e gandhiano.

 

 

2024 ©, Massimo Ghirardi

Si ringrazia Lorenzo Marmiroli per la gentile collaborazione

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Disegnato da: Massimo Ghirardi

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Profilo araldico


“D’oro, all’aquila bicefala di nero, allo scudo d’oro caricato da una Tau d’azzurro e sormontato da una corona d’oro, attraversante sul tutto”.

Oggetti dello stemma:
aquila bicefala, corona, scudo, tau
Attributi araldici:
attraversante, caricato, sormontato

LEGENDA

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