Paolo IV – Carafa
Paolo IV – Carafa
Gian Piero Carafa nacque il 28 giugno 1476 a Capriglia Irpina (Avellino) da Giovanni Antonio, barone di Sant’Angelo della Scala, e da Vittoria Camponeschi.
Una precoce vocazione religiosa lo indusse agli studi teologici e, nel 1494, a trasferirsi a Roma per intraprendere la carriera ecclesiastica sotto la protezione dello zio, l’arcivescovo di Napoli e cardinale Oliviero Carafa.
Vescovo di Chieti nel 1505, prese possesso della diocesi solo l’anno seguente a causa dell’ostilità del governo spagnolo verso la sua famiglia, tradizionalmente filoangioina, e vi risiedette fino al 1513. Avviò un’azione di riforma imperniata sul rafforzamento del potere del vescovo e su un disciplinamento dei costumi del clero locale.
Rientrato a Roma per partecipare al V Concilio Lateranense, fu impegnato fino al 1520 in missioni diplomatiche.
Rientrato a Napoli e poi a Roma cominciò ad avvertire l’esigenza di una severa risposta della Chiesa alla diffusione della Riforma protestante, giudicata l’esito più nocivo della cultura filologica e umanistica.
Nel 1525, pensa di costituire un ordine religioso come efficace strumento di contenimento antiereticale. Nel 1524 erano infatti nati, per volontà sua e del vicentino Gaetano di Thiene, i chierici regolari ai quali aveva donato tutti i suoi beni divenendone superiore fino al 1527. I teatini dipendevano dal papa e si distinguevano per un rigorismo morale, per la loro indefessa attività di denuncia degli eretici tanto da venire rappresentati come fanatici e bigotti. Si impegnarono anche a combattere la corruzione ecclesiastica, a raccogliere informazioni sugli eretici e a promuovere la propaganda cattolica.
Fu talmente intransigente che arrivò a dubitare dell’ortodossia di Ignazio di Loyola (conosciuto appunto a Venezia) e ad appellarsi al pontefice, cui, nel 1532, si rivolse ribadendo l’intangibilità delle dottrine cattolico-romane e del primato della Sede apostolica, lanciando un allarme per il diffondersi dell’eresia. Per rimediarvi indicava non solo la repressione, ma anche la realizzazione di una profonda riforma delle istituzioni ecclesiastiche, il cui stato di corruzione, discredito e impotenza reputava la principale causa del dissenso. Parte da qui l’uso estensivo del concetto di eresia applicabile tanto al protestantesimo che a ogni forma di critica religiosa e agli abusi ecclesiastici.
Collobora, nella seconda metà degli anni 30, con prelati anche filoluterani. Tuttavia rifiutò sempre il dialogo con gli eretici. Con l’avvento al soglio pontificio di Paolo III, nel 1536, fu chiamato assieme ad altri ecclesiastici aperti all’innovazione a lavorare alla riforma della Chiesa in vista della convocazione del concilio.
Il 22 dicembre 1536 ottenne la porpora cardinalizia e redasse il «Consilium de emendanda ecclesia». Il documento contiene drastici suggerimenti che suscitarono le risentite reazioni degli ambienti più tradizionalisti. Da allora, Carafa si dissociò dalle posizioni riformatrici più radicali, probabilmente per l’atteggiamento di compromesso dottrinale proposto nel corso dei colloqui di religione cattolico-protestanti di Ratisbona del 1541. Carafa diventa leader di un fronte intransigente ed è in grado di sfruttare le crescenti preoccupazioni dei vertici ecclesiastici per la diffusione dell’eresia in molte città italiane e di ottenere da Paolo III, con la bolla “Licet ab initio” del 21 luglio 1542, l’istituzione del tribunale del S. Uffizio, che centralizzava l’attività delle inquisizioni locali e rappresentò un efficace strumento di repressione antiereticale.
Nelle sue mani, l’Inquisizione romana divenne soprattutto un organo capace di epurare la classe dirigente ecclesiastica tramite indagini e processi contro prelati, vescovi e cardinali anche solo lontanamente sospettabili di aderire alle dottrine d’oltralpe. Con questi metodi il S. Uffizio riuscì a bloccare l’ascesa ai vertici della Chiesa e allo stesso papato degli esponenti dell’ala moderata, rappresentata dai favorevoli, tra loro l’imperatore Carlo V, alla politica di conciliazione interconfessionale giudicata da Carafa un incentivo alla diffusione del protestantesimo.
Di chiaro segno antispagnolo fu la sua nomina, nel 1549, ad arcivescovo di Napoli, dove proseguì l’opera repressiva contro i locali circoli valdesi.
La proposta di pontificato per il Carafa fu portata avanti direttamente dal Sant’Uffizio.
Salito al soglio, nel 1555, con il nome di Paolo IV revisionò le procedure per l’assegnazione delle diocesi, avviò la riforma disciplinare di conventi e monasteri, ampliò le competenze dell’Inquisizione. Colpì anche le comunità ebraiche dello Stato della Chiesa con aspre disposizioni istituendo il ghetto ebraico a Roma.
Di segno antimperiale fu la stessa assegnazione del cardinalato e della conduzione degli affari politici al nipote Carlo Carafa, uomo d’armi antispagnolo. Inevitabile fu lo scontro con il baronaggio romano fedele agli Asburgo e capeggiato dai Colonna.
I Colonna vennero scomunicati ed espropriati di tutti i possedimenti, e conferì Paliano in ducato al nipote Giovanni Carafa, conte di Montorio. Al contempo aprì negoziati con le corti europee per la riconvocazione del concilio con il solo intento di guadagnar tempo.
S’intensificava intanto l’attività del S. Uffizio, ormai interessato a colpire gli esponenti più prestigiosi del dissenso religioso interno alla Chiesa.
Lo stesso rigore inquisitoriale non venne usato Piero Strozzi, nonostante le accuse di eterodossia e persino di ateismo; per Renata di Francia, consorte dell’alleato duca di Ferrara, Ercole II d’Este, il cui processo per eresia fu insabbiato; per il principe di Salerno, Ferrante Sanseverino, noto per le sue note propensioni filoprotestanti; per il conte Camillo Orsini, le cui simpatie eterodosse divennero oggetto dell’interesse inquisitoriale solo dopo la sua morte (1559); per il filoprotestante marchese Alberto di Brandeburgo, con il quale la Santa Sede cercò di negoziare un’alleanza antimperiale.
La sconfitta delle truppe francesi a Paliano a opera di quelle spagnole (27 luglio 1557) obbligò Paolo IV ad accettare una pace (stipulata a Cave il 14 settembre 1557) che lo obbligava a sciogliere la lega antispagnola, a revocare la scomunica contro i Colonna e a togliere al nipote il feudo di Paliano. Un esito politicamente fallimentare, che lo spinse da un lato a concentrarsi nuovamente sull’attività riformatrice interrotta durante la guerra ,con una serie di severi provvedimenti per la riforma del clero, dei tribunali curiali, della collazione dei benefici ecclesiastici, della vendita degli uffici, e dall’altro a inasprire l’azione antiereticale e di rafforzamento delle competenze del S. Uffizio.
Eclatante fu la regolamentazione dell’accesso al papato sancita il 15 febbraio 1559 con la bolla Cum ex apostolatus officio che dichiarava nulla l’elezione pontificia di chi avesse precedentemente deviato dall’ortodossia e privava dei diritti in conclave i cardinali sospettati di simpatie eterodosse. E ancor più rilevante l’emanazione del primo Indice dei libri proibiti della Chiesa: a una prima versione compilata nel 1557 dal S. Uffizio ne seguì una seconda, ancora affidata all’Inquisizione, promulgata alla fine del 1558 e pubblicata l’anno seguente. L’indiscriminato e grossolano rigore con cui questo Indice falciava la migliore cultura europea, da Boccaccio all’intera produzione letteraria di Erasmo, da alcune opere di Savonarola (contro cui Paolo IV aveva nel 1558 riaperto il processo) a quelle di Machiavelli, suscitò le proteste di moltissimi stampatori e librai e fece emergere le difficoltà di dare a esso esecuzione da parte degli inquisitori locali, costringendo il S. Uffizio a emanare nello stesso 1559 un’apposita istruzione che cercava di mitigarne il furore censorio.
Nell’ultimo scorcio del suo pontificato, Paolo IV non mancò di far pagare ai nipoti la loro pessima gestione della politica antiasburgica: privò Carlo Carafa delle funzioni di governo e Giovanni Carafa di quelle di capitano generale della Chiesa, esiliandoli entrambi da Roma e consegnando l’intera direzione degli affari temporali a un organo collegiale, il Sacro Consiglio, composto da Camillo Orsini e da inquisitori e fedeli teatini.
L’opera di severo riordinamento amministrativo fu interrotta dalla scomparsa del papa, dopo una lunga malattia, il 18 agosto 1559. Quello stesso giorno, il popolo di Roma esplose in un tumulto nel corso del quale fece scempio della statua del papa e incendiò la sede dell’Inquisizione romana, liberando i prigionieri, mentre satire e pasquinate sbeffeggiavano la «vile e scelarata setta» del «carafesco seme» «fin dal ciel negletta».
Lo stemma papale, “Di rosso alle tre fasce d’argento” è lo stemma del ramo principale della famiglia.
Una tradizione sostiene che il capostipite sarebbe stato un nobile pisano dei Sismondi il quale avrebbe salvato la vita all’imperatore Enrico IV frapponendosi tra lui e la lama di un attentatore. Il sovrano, avendolo abbracciato, gli disse: “Cara fe m’è la vostra”, da cui il cognome “Carafa”. Passando tre dita sulla corazza insanguinata del fedele gentiluomo, l’imperatore venne a segnarvi tre bianche fasce: da qui lo stemma con tre fasce d’argento in campo rosso della famiglia.
Nota di Bruno Fracasso
Liberamente tratto dall’enciclopedia Treccani
Stemma Ridisegnato
Stemma Ufficiale
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Bozzetto originale acs/Pdc
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Profilo araldico
“Di rosso alle tre fasce di argento”.
Note stemma
È lo stemma della famiglia Carafa.
LEGENDA