Contea Aldobrandesca di Maremma


Informazioni

Originario di Lucca, il lignaggio degli Aldobrandeschi prese nome da un Ildeprando di Ilprando, vissuto nel IX secolo, primo a fregiarsi del titolo di conte, che – a quanto risulta da alcuni codici coevi – nell’803 ricevette in locazione dal vescovo di Lucca alcune terre nel territorio di Sovana e Roselle, insieme al fratello Aliperto, che però non lasciò eredi. Il vero capostipite della lunga prosapia viene tuttavia considerato da molti storici suo figlio Eriprando, che ebbe saldi legami con l’imperatore, senza per questo rompere i buoni rapporti con l’autorità vescovile, acquisendo in breve un ruolo centrale per le dinamiche politiche dell’area maremmana. Da quel tempo, grazie a un accorto equilibrio tra i maggiori centri di potere, le fortune della famiglia acquisirono una posizione sociale in costante crescita, promuovendo l’edificazione di castelli e pievi, dove si riscontra l’opera di qualificate maestranze.
I conti risedettero in origine a Roselle, in quegli anni città fiorente, con campagne fertili e ben posizionata lungo la via Aurelia. Gli Aldobrandeschi vi rimasero insediati per circa un secolo, ma in seguito a una violenta incursione saracena che distrusse la città, la abbandonarono e si trasferirono a Sovana. La cattedra vescovile venne invece trasferita a Grosseto.
La loro non fu in ogni caso una residenza stabile. La contea era formata da circa ottanta castelli senza sottomissione di uno rispetto agli altri; i conti vi dimorarono senza che nessuno di essi avesse una posizione di esclusività, ed è questo uno dei motivi per cui i centri urbani della Maremma non ebbero un’espansione politica ed economica importante, così come non vi si registrano nuove fondazioni. Tutto questo non impedì agli Aldobrandeschi di dar corpo a un vasto comitato, rimasto indiviso per una dozzina di generazioni, che si estendeva ben oltre l’attuale provincia di Grosseto, dall’Amiata e le Colline Metallifere fino al mare, con castelli e fortificazioni che per lungo tempo saranno in grado di fronteggiare le potenze di Pisa, Siena, Orvieto e Firenze.
La loro forza derivava dalla posizione geografica del feudo, attraversato da due grandi vie di comunicazione quali l’Aurelia e la Francigena. Ma anche altri fattori giocarono un ruolo determinate, quali l’opportunismo dei conti, che spesso riuscirono a sfruttare l’appoggio dell’Imperatore senza mettersi in contrasto col Papa, o la forte unità del lignaggio. Nel corso del XIII secolo, tuttavia, la concordia familiare cominciò a incrinarsi. Alla morte del conte Aldobrandino VIII, i quattro figli entrarono in conflitto, che portò a una sommaria ripartizione dei territori del feudo, sui quali le mire espansionistiche di Siena e Orvieto si facevano sempre più pressanti.
Morti due dei fratelli senza lasciare eredi, di fatto la contea fu ripartita tra i due rimasti: a Bonifacio andò la contea di Santa Fiora, e a Guglielmo quella di Pitigliano e Sovana. I motivi della divisione erano in gran parte politici; il conte Guglielmo, soprattutto dopo la morte dell’imperatore Federico II (1250), per opportunità passò apertamente al campo guelfo in funzione antisenese, alleandosi con Firenze. Suo figlio Omberto seguì le orme del padre, ma trovò morte precoce nel 1259 a Campagnatico, per alcuni in battaglia, per altri assassinato da sicari senesi. Dante non manca di citarlo nella Commedia, immaginando di incontrarlo nel girone dei superbi (Purg., XI, 49-72). Suo cugino Ildebrandino, del ramo di Santa Fiora, rimase invece fedele alla causa imperiale e fu protagonista della battaglia di Montaperti (1260) come capitano di una divisione dell’oste senese.
La spaccatura politica tra i due rami si riflette chiaramente anche sulle insegne comitali. Il ramo di Sovana e Pitigliano portava uno stemma d’oro al leone di rosso (fig. 1); quello dei conti di Santa Fiora, che invece erano rimasti fedeli alla parte imperiale, era d’oro all’aquila bicipite di nero (fig. 2). Sappiamo bene che le figure d’una insegna, se analizzate nel proprio ambito temporale e territoriale, si rivelano portatrici di un messaggio ben preciso, e quello appena esposto ne è prova lampante, in quanto l’aquila bicipite era il segno della casata imperiale degli Hohenstaufen, e il leone di quella dei suoi principali oppositori, i Welfen, duchi di Brunswick-Lüneburg, dai quali deriva il termine Guelfi. I più tardi blasonari ufficiali riportano tuttavia uno stemma partito con il mezzo leone rosso del ramo di Sovana unito alla mezza aquila di quello di Santa Fiora, raffigurata anch’essa di rosso, dando corpo a una figura ibrida del tutto peculiare (fig. 3).

 
null
 

La suddivisione del comitato non portò certo giovamento per gli Aldobrandeschi, che non furono in grado di opporsi validamente all’espansione della Repubblica di Siena, alla quale entrambi i rami furono costretti a cedere progressivamente porzioni dei loro territori, fino a doversi sottomettere definitivamente a Siena nel 1331.

Nel frattempo, con l’estinzione del ramo di Sovana (1293), subentrò per matrimonio Romano Orsini, che acquisì il titolo di conte di Pitigliano. Il lignaggio si estinse nel 1451, quando anche il limitato territorio rimasto alla contea di Santa Fiora venne acquisito per matrimonio da Bosio Sforza, conte di Cotignola.

 

All’interno dei confini della contea, fin dall’XI secolo era fiorita Massa Marittima, nella quale era stata trasferita la sede episcopale precedentemente insediata nell’ormai decadente Populonia. Negli ultimi decenni del XII secolo si accese una lunga e complessa disputa in merito ai diritti feudali sulla città, contesi tra il vescovo e i conti Aldobrandeschi, che videro prevalere ora l’una, ora l’altra parte. I massetani, da parte loro, cercarono con ogni mezzo di sottrarsi a ogni giogo feudale, finché, dopo essersi dati per circa un decennio in accomandigia a Pisa, la città si costituì in libero comune (1225-1337), reggendosi su una solida economia basata sullo sfruttamento minerario delle circostanti Colline metallifere, ricche di giacimenti di rame e argento. Entrata stabilmente nell’orbita economica e politica di Siena, fu da questa completamente assoggettata nel 1335. Massa Marittima alzò un’insegna Di rosso al leone d’oro, in seguito abbassata sotto un Capo d’Angiò (fig. 4). Fin dal primo sguardo, è evidente che si tratti dell’insegna dei conti Aldobrandeschi (ramo di Sovana), ma con gli smalti invertiti. Siamo davanti a uno di quei casi, piuttosto comuni nel Medioevo, in cui con l’inversione cromatica dell’insegna si prendevano le distanze da uno status precedente. A titolo di esempio basterà citare un paio di casi ben noti, quali l’adozione del vessillo della Lega Lombarda (croce rossa in campo bianco) come inversione della Reichsfahne imperiale; oppure il giglio fiorentino, in origine d’argento in campo di rosso, nel 1250 «per dovision fatto vermiglio», per usare le parole dell’Alighieri (Par., XVI, 154).

 

 
seconda immagine
 

Anche i centri delle due contee aldobrandesche alzavano una prioria insegna civica, della quale restano tuttavia solo attestazioni più tarde. Quella di Sovana, deducibile da blasonari del sec. XVII, si blasona Di rosso, al leone d’argento, coronato d’oro, tenente le chiavi di S. Pietro, decussate, dello stesso (fig. 5). Degno di nota l’esemplare delle Cappelle medicee, presso la basilica fiorentina di San Lorenzo e ripreso in seguito da alcuni blasonari fiorentini, che porta un campo d’oro anziché rosso, reso poco attendibile dalla regola araldica di non sovrapporre due metalli. Anche l’insegna della contea di Santa Fiora presenta la stessa problematica: su uno scudo d’argento figurava un anello d’oro con una pietra incastonata, di colore imprecisato (fig. 6).

Grosseto, maggiore centro maremmano e sede di diocesi, alzava, allora come adesso, uno scudo Di rosso, al grifone d’argento, tenente una spada alta dello stesso (fig. 7), come attestano numerosi blasonari e l’esemplare esistente presso le citate Cappelle medicee a Firenze. Quanto meno curiosa la rappresentazione del grifone grossetano nel pavimento monumentale del duomo di Siena, che presenta un corpo di cavallo – invece che di leone – e testa d’aquila (fig. 8).

 

 
terza immagine
 

(nota a cura di Michele Turchi)

 

Bibliografia:

S.M. Collavini, Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus. Gli Aldobrandeschi da «Conti» a «Principi territoriali» (secoli IX-XIII), ETS, Pisa 1998.

Gli Aldobrandeschi. La grande famiglia feudale della Maremma Toscana (Atti del convegno di S. Fiora, 26 maggio 2001), a cura di M. Ascheri e L. Niccolai, C&Padver Effigi, Arcidosso 2002.

  1. Ciacci, Gli Aldobrandeschi nella storia e nella “Divina Commedia”, Multigrafica, Roma 1980.

Enciclopedia Dantesca, a cura di Roberto Bosco, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1970-1978, s.v. Aldobrandeschi, Omberto, a cura di G. Varanini.

 

LEGENDA

  • stemma
  • gonfalone
  • bandiera
  • sigillo
  • città
  • altro
  • motto
  • istituzione nuovo comune

Informazioni

Originario di Lucca, il lignaggio degli Aldobrandeschi prese nome da un Ildeprando di Ilprando, vissuto nel IX secolo, primo a fregiarsi del titolo di conte, che – a quanto risulta da alcuni codici coevi – nell’803 ricevette in locazione dal vescovo di Lucca alcune terre nel territorio di Sovana e Roselle, insieme al fratello Aliperto, che però non lasciò eredi. Il vero capostipite della lunga prosapia viene tuttavia considerato da molti storici suo figlio Eriprando, che ebbe saldi legami con l’imperatore, senza per questo rompere i buoni rapporti con l’autorità vescovile, acquisendo in breve un ruolo centrale per le dinamiche politiche dell’area maremmana. Da quel tempo, grazie a un accorto equilibrio tra i maggiori centri di potere, le fortune della famiglia acquisirono una posizione sociale in costante crescita, promuovendo l’edificazione di castelli e pievi, dove si riscontra l’opera di qualificate maestranze.
I conti risedettero in origine a Roselle, in quegli anni città fiorente, con campagne fertili e ben posizionata lungo la via Aurelia. Gli Aldobrandeschi vi rimasero insediati per circa un secolo, ma in seguito a una violenta incursione saracena che distrusse la città, la abbandonarono e si trasferirono a Sovana. La cattedra vescovile venne invece trasferita a Grosseto.
La loro non fu in ogni caso una residenza stabile. La contea era formata da circa ottanta castelli senza sottomissione di uno rispetto agli altri; i conti vi dimorarono senza che nessuno di essi avesse una posizione di esclusività, ed è questo uno dei motivi per cui i centri urbani della Maremma non ebbero un’espansione politica ed economica importante, così come non vi si registrano nuove fondazioni. Tutto questo non impedì agli Aldobrandeschi di dar corpo a un vasto comitato, rimasto indiviso per una dozzina di generazioni, che si estendeva ben oltre l’attuale provincia di Grosseto, dall’Amiata e le Colline Metallifere fino al mare, con castelli e fortificazioni che per lungo tempo saranno in grado di fronteggiare le potenze di Pisa, Siena, Orvieto e Firenze.
La loro forza derivava dalla posizione geografica del feudo, attraversato da due grandi vie di comunicazione quali l’Aurelia e la Francigena. Ma anche altri fattori giocarono un ruolo determinate, quali l’opportunismo dei conti, che spesso riuscirono a sfruttare l’appoggio dell’Imperatore senza mettersi in contrasto col Papa, o la forte unità del lignaggio. Nel corso del XIII secolo, tuttavia, la concordia familiare cominciò a incrinarsi. Alla morte del conte Aldobrandino VIII, i quattro figli entrarono in conflitto, che portò a una sommaria ripartizione dei territori del feudo, sui quali le mire espansionistiche di Siena e Orvieto si facevano sempre più pressanti.
Morti due dei fratelli senza lasciare eredi, di fatto la contea fu ripartita tra i due rimasti: a Bonifacio andò la contea di Santa Fiora, e a Guglielmo quella di Pitigliano e Sovana. I motivi della divisione erano in gran parte politici; il conte Guglielmo, soprattutto dopo la morte dell’imperatore Federico II (1250), per opportunità passò apertamente al campo guelfo in funzione antisenese, alleandosi con Firenze. Suo figlio Omberto seguì le orme del padre, ma trovò morte precoce nel 1259 a Campagnatico, per alcuni in battaglia, per altri assassinato da sicari senesi. Dante non manca di citarlo nella Commedia, immaginando di incontrarlo nel girone dei superbi (Purg., XI, 49-72). Suo cugino Ildebrandino, del ramo di Santa Fiora, rimase invece fedele alla causa imperiale e fu protagonista della battaglia di Montaperti (1260) come capitano di una divisione dell’oste senese.
La spaccatura politica tra i due rami si riflette chiaramente anche sulle insegne comitali. Il ramo di Sovana e Pitigliano portava uno stemma d’oro al leone di rosso (fig. 1); quello dei conti di Santa Fiora, che invece erano rimasti fedeli alla parte imperiale, era d’oro all’aquila bicipite di nero (fig. 2). Sappiamo bene che le figure d’una insegna, se analizzate nel proprio ambito temporale e territoriale, si rivelano portatrici di un messaggio ben preciso, e quello appena esposto ne è prova lampante, in quanto l’aquila bicipite era il segno della casata imperiale degli Hohenstaufen, e il leone di quella dei suoi principali oppositori, i Welfen, duchi di Brunswick-Lüneburg, dai quali deriva il termine Guelfi. I più tardi blasonari ufficiali riportano tuttavia uno stemma partito con il mezzo leone rosso del ramo di Sovana unito alla mezza aquila di quello di Santa Fiora, raffigurata anch’essa di rosso, dando corpo a una figura ibrida del tutto peculiare (fig. 3).

 
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La suddivisione del comitato non portò certo giovamento per gli Aldobrandeschi, che non furono in grado di opporsi validamente all’espansione della Repubblica di Siena, alla quale entrambi i rami furono costretti a cedere progressivamente porzioni dei loro territori, fino a doversi sottomettere definitivamente a Siena nel 1331.

Nel frattempo, con l’estinzione del ramo di Sovana (1293), subentrò per matrimonio Romano Orsini, che acquisì il titolo di conte di Pitigliano. Il lignaggio si estinse nel 1451, quando anche il limitato territorio rimasto alla contea di Santa Fiora venne acquisito per matrimonio da Bosio Sforza, conte di Cotignola.

 

All’interno dei confini della contea, fin dall’XI secolo era fiorita Massa Marittima, nella quale era stata trasferita la sede episcopale precedentemente insediata nell’ormai decadente Populonia. Negli ultimi decenni del XII secolo si accese una lunga e complessa disputa in merito ai diritti feudali sulla città, contesi tra il vescovo e i conti Aldobrandeschi, che videro prevalere ora l’una, ora l’altra parte. I massetani, da parte loro, cercarono con ogni mezzo di sottrarsi a ogni giogo feudale, finché, dopo essersi dati per circa un decennio in accomandigia a Pisa, la città si costituì in libero comune (1225-1337), reggendosi su una solida economia basata sullo sfruttamento minerario delle circostanti Colline metallifere, ricche di giacimenti di rame e argento. Entrata stabilmente nell’orbita economica e politica di Siena, fu da questa completamente assoggettata nel 1335. Massa Marittima alzò un’insegna Di rosso al leone d’oro, in seguito abbassata sotto un Capo d’Angiò (fig. 4). Fin dal primo sguardo, è evidente che si tratti dell’insegna dei conti Aldobrandeschi (ramo di Sovana), ma con gli smalti invertiti. Siamo davanti a uno di quei casi, piuttosto comuni nel Medioevo, in cui con l’inversione cromatica dell’insegna si prendevano le distanze da uno status precedente. A titolo di esempio basterà citare un paio di casi ben noti, quali l’adozione del vessillo della Lega Lombarda (croce rossa in campo bianco) come inversione della Reichsfahne imperiale; oppure il giglio fiorentino, in origine d’argento in campo di rosso, nel 1250 «per dovision fatto vermiglio», per usare le parole dell’Alighieri (Par., XVI, 154).

 

 
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Anche i centri delle due contee aldobrandesche alzavano una prioria insegna civica, della quale restano tuttavia solo attestazioni più tarde. Quella di Sovana, deducibile da blasonari del sec. XVII, si blasona Di rosso, al leone d’argento, coronato d’oro, tenente le chiavi di S. Pietro, decussate, dello stesso (fig. 5). Degno di nota l’esemplare delle Cappelle medicee, presso la basilica fiorentina di San Lorenzo e ripreso in seguito da alcuni blasonari fiorentini, che porta un campo d’oro anziché rosso, reso poco attendibile dalla regola araldica di non sovrapporre due metalli. Anche l’insegna della contea di Santa Fiora presenta la stessa problematica: su uno scudo d’argento figurava un anello d’oro con una pietra incastonata, di colore imprecisato (fig. 6).

Grosseto, maggiore centro maremmano e sede di diocesi, alzava, allora come adesso, uno scudo Di rosso, al grifone d’argento, tenente una spada alta dello stesso (fig. 7), come attestano numerosi blasonari e l’esemplare esistente presso le citate Cappelle medicee a Firenze. Quanto meno curiosa la rappresentazione del grifone grossetano nel pavimento monumentale del duomo di Siena, che presenta un corpo di cavallo – invece che di leone – e testa d’aquila (fig. 8).

 

 
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(nota a cura di Michele Turchi)

 

Bibliografia:

S.M. Collavini, Honorabilis domus et spetiosissimus comitatus. Gli Aldobrandeschi da «Conti» a «Principi territoriali» (secoli IX-XIII), ETS, Pisa 1998.

Gli Aldobrandeschi. La grande famiglia feudale della Maremma Toscana (Atti del convegno di S. Fiora, 26 maggio 2001), a cura di M. Ascheri e L. Niccolai, C&Padver Effigi, Arcidosso 2002.

  1. Ciacci, Gli Aldobrandeschi nella storia e nella “Divina Commedia”, Multigrafica, Roma 1980.

Enciclopedia Dantesca, a cura di Roberto Bosco, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1970-1978, s.v. Aldobrandeschi, Omberto, a cura di G. Varanini.

 

LEGENDA

  • stemma
  • gonfalone
  • bandiera
  • sigillo
  • città
  • altro
  • motto
  • istituzione nuovo comune