Monferrato


Informazioni

Il Monferrato (Mons Ferratus, in latino: Monferrat in francese) è una regione storica corrispondente, pressoché per intero, all’omonimo marchesato “Aleramico”.

 

Il suo territorio, caratterizzato da colline coltivate perlopiù a viti, è suddiviso attualmente tra le Province di Alessandria e Asti, e si estende verso sud a partire dalla destra idrografica del fiume Po sino a raggiungere l’Appennino Ligure al confine con il territorio della Città Metropolitana di Genova e la provincia di Savona. Inoltre confina con altre regioni geografiche e storiche del Piemonte appartenenti oggi alla provincia di Cuneo: le Langhe e il Roero, e a nord-est con la Lomellina.

 

Il giorno 22 giugno 2014, durante la 38ª sessione del comitato UNESCO a Doha, è stato ufficialmente incluso, assieme a Langhe e Roero, nella lista territori “beni del Patrimonio dell’Umanità”.

 

Sull’etimologia del coronimo Monferrato non c’è certezza assoluta: alcune ipotesi sono piuttosto fantasiose, Aldo di Ricaldone lo fa derivare dall’unione di “mons” e “farratus” (“monte coltivato a farro”); altri da “mons ferax“, cioè monte fertile e ricco; altri ancora farebbe riferimento alle armi abbandonate dai Romani nelle numerose battaglie per la conquista, da cui “mons ferratus” (monte dei ferri). La più nota, ma non per questo verosimile, vuole che il nobile Aleramo, capostipite dei signori del Monferrati, volendo riferrare un cavallo velocemente e non trovando i materiali adatti, al posto del martello usò un mattone (“mun” in dialetto monferrino) e così il cavallo fu ferrato “frà“: da qui il Munfrà, secondo una nota leggenda che vi diremo di seguito.

 

Una teoria accreditata, proposta da Aldo A. Settia, fa riferimento ai numerosi toponimi simili diffusi tra Piemonte e Lombardia Occidentale, indicando la presenza di un tipo di terreno detto “ferrétto“: argilloso e ricco di minerali ferrosi.

 

Anche sull’origine della dinastia degli Aleramici non ci sono certezze: secondo la leggenda Aleramo, capostipite della casata, fu un discendente di Teodorico di Frisia (o, secondo altri, addirittura dei signori del Kent). Sulla sua vicenda persino Giosuè Carducci si interessò, scrivendone la versione più nota (in “Cavalleria e Umanesimo”).

 

Aleramo (il cui antroponimo significa “persona allegra”) sarebbe nato da genitori germanici presso Acqui Terme, nell’abbazia di Santa Giustina di Sezzadio, mentre i genitori vi si trovavano alloggiati durante un loro pellegrinaggio diretti a Roma. Rimasto ben presto orfano venne arruolato nell’esercito imperiale di Ottone I di Sassonia, alla cui corte conobbe la di lui figlia Adelasia (o Alasia) della quale si innamorò perdutamente venendo da lei ricambiato. Data la differenza di lignaggio il matrimonio tra i due era impossibile per cui i due giovani fuggirono per rifugiarsi nel Monferrato, nella fuga usarono lei un cavallo bianco e lui uno di manto rossiccio (da quelli sarebbero derivati i colori dello stemma Aleramici: “d’argento, al capo di rosso”).

 

A matrimonio avvenuto ottennero il perdono dell’imperatore il quale concesse agli sposi tante terre quante Aleramo fosse riuscito a percorrerne cavalcando senza sosta in un giorno. Il territorio che egli riuscì a perimetrare divenne il Monferrato: il cui nome deriverebbe dai termini monferrini mun (mattone) e da frà (ferrare), ovvero dal mattone utilizzato per riferrare il cavallo che Aleramo utilizzò per l’impresa.

 

Secondo il documento del 961 con l’elenco possedimenti dei quali venne dotato il monastero di Grazzano, Aleramo era figlio di tale conte Guglielmo, un nobile di stirpe franca, giunto in Italia nell’888 al seguito del duca longobardo Guido II di Spoleto e documentato presso la corte del re d’Italia Rodolfo II di Borgogna nel 924

 

La prima citazione di una famiglia aleramica, o almeno di una parte di essa, stabilmente insediata, compare nel Cartulario dell’abbazia di Montieramey dell’anno 837 dove è citato Aleramo, conte di Troyes (ma noto anche come Alerano di Barcellona), signore di un territorio settentrionale del ducato di Borgogna, valente capo. Fedele di re Ludovico il Pio e, dopo di lui, di Carlo il Calvo, combatté con successo gli arabi in Catalogna nell’850, venendo quindi incaricato di sedare la rivolta promossa da Bernardo I di Tolosa duca di Settimania, riuscendo nell’impresa ma perdendovi la vita.

 

Il padre dell’Aleramo italiano, Guglielmo, compare al seguito del duca Guido di Spoleto nel suo ritorno in Italia, dopo l’infruttuosa campagna per ottenere la corona di Francia, nell’anno 888. Le origini familiari di Adelasia, prima moglie di Aleramo e progenitrice degli aleramici, restano invece sconosciute. Certo è che Aleramo sposò successivamente la nobile Gerberga, figlia di Berengario II re d’Italia, matrimonio che gli consentì di acquisire il titolo marchionale fra il 958 e il 961.

 

Fondatore delle dinastie che, da lui, verranno detta “aleramiche” godeva di grande prestigio sia presso Ugo di Provenza (definito da questi in una donazione “fidelis noster Alledramus“), sia presso Lotario II d’Italia e Berengario II d’Ivrea, come pure presso Ottone I. Ricevette diverse donazioni di terre, che si aggiunsero ai beni che già posseduti nel Vercellese e in Lombardia, e il titolo di “marchese” (cioè “governatore militare” di una Marca) da Berengario II. Peraltro, lo stesso Berengario, come Aleramo, discendeva da una casata marchionale di origine franca, gli Anscarici, esule in Italia al seguito di Guido di Spoleto. Entrambi avevano mantenuto stretti legami con la corte dei re di Borgogna, tanto che Aleramo fu un favorito della regina Adelaide di Borgogna, moglie dell’imperatore Ottone I di Sassonia, la quale gli consentì di passare indenne attraverso la sconfitta di Berengario e l’assunzione del trono italico da parte dell’imperatore germanico che, nel 967, gli  donò un vasto territorio compreso tra il fiume Orba e il Tanaro, fino al confine con il territorio di Savona. Si trattava, in realtà, di una plaga selvosa e incolta devastata nel periodo precedente dalle incursioni dei cosiddetti “saraceni” e per questo noto come “Guasto” o “Vasto”, che darà agnome ad una ramo degli Aleramici. L’investitura formale giunse dopo che Aleramo aveva ottenuto una grande vittoria contro i saraceni in una battaglia presso l’odierna Acqui Terme, dando sicurezza agli abitanti.

 

Entro quest’area si trovavano alcune città vescovili, come Savona o Acqui, retti dal vescovo-conte e dotati di grande autonomia e, al momento dell’investitura di Aleramo, il resto territorio circostante risultava diviso in due grandi Marche: a nord quella di Ivrea e a sud, fra Torino e Ventimiglia, quella del marchese di Torino Arduino “il Glabro”.

 

Alla fine dell’XI secolo, dopo circa un secolo dalla morte di Aleramo, la discendenza si diramava in tre rami principali:

  • I marchesi di Monferrato, discendenti da Ottone. I loro beni patrimoniali erano concentrati a nord del fiume Tanaro.
  • I marchesi del Bosco, discendenti da Anselmo. I loro beni patrimoniali erano collocati fra Alessandria ed Albisola
  • I marchesi Del Vasto, anch’essi discendenti da Anselmo. Essi avevano ereditato i territori aleramici fra Asti e Savona e vi unirono alcuni beni degli “arduinici” fra Saluzzo e Albenga.

 

La linea dei marchesi del Monferrato, il primo ad essere citato come “Marchese” di Monferrato sarà Ranieri nel 1111, si estinse nel 1305, e vennero sostituiti dai bizantini Paleologi che confluiranno nei Gonzaga di Mantova nel 1536. I Savoia prenderanno pieno possesso del marchesato nel 1708 quando il Ducato di Mantova fu occupato dalle truppe imperiali di Leopoldo I d’Asburgo.

 

L’ampio dominio di Bonifacio, “il più famoso marchese d’Italia”, secondo il cronista Goffredo Malaterra, fu suddiviso fra i suoi sette figli dando origine a un gran numero di linee dinastiche: i marchesi di Saluzzo, quelli di Busca e Lancia, quelli di Ceva e Clavesana, quelli di Savona e quelli di Incisa.

 

Per la maggior parte della sua esistenza, il marchesato fu suddiviso in due grandi aree separate: l’Alto Monferrato meridionale, con capoluogo Aqui Terme e il Basso Monferrato settentrionale con capoluogo Casale (oggi Casale Monferrato).

Lo stemma del Marchesato di Monferrato si è modificato in seguito alle complesse vicende storiche fino a mostrare i diversi territori che si sono legati alla storia monferrina. Elevato dall’imperatore in ducato nel 1575 finì per passare ai Savoia nel 1713 con il trattato di Utrecht.

Lo stemma “di Monferrato Moderno” si blasona: “Inquartato: nel primo di rosso all’aquila bicipite d’oro; nel secondo partito: a) d’argento alla croce potenziata d’oro, accantonata da quattro crocette dello stesso, b) d’oro a quattro bastoni di rosso; nel terzo partito: a) fasciato di otto pezzi d’oro e di nero, al crancelino di verde attraversante, b) d’azzurro seminato di crocette pomettate e pieficcate, ai due barbi addossati posti in palo, il tutto d’oro; nel quarto di rosso alla croce d’oro, accantonata da quattro “B” [beta] addossate dello stesso. Sul tutto in cuore d’argento al capo di rosso”.

 

Il primo campo mostra l’aquila imperiale dell’Impero Romano Bizantino dello stemma della casa imperiale dei Paleologo, che furono la famiglia imperiale di Bisanzio fino al 1455, derivata dall’aquila imperiale romana con “due teste” (bicipite), delle quali una volta a destra e l’altra a sinistra. La tradizione vuole che sia stata istituita da Costantino I nel 330, quando trasferì la sede imperiale a Costantinopoli, a significare “che egli teneva sotto la stessa corona un unico Impero con due capitali” (P. Guelfi Camajani). Si ritiene che l’aquila bicipite d’oro in campo rosso rappresenti l’Impero d’Oriente, mentre quella nera in campo d’oro quello d’Occidente (attualmente l’aquila bicipite in campo oro è anche l’emblema della Chiesa Ortodossa e del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli).

Caduto l’Impero Bizantino della dinastia dei Paleologi nel 1453, l’aquila imperiale fu adottata dallo zar Pietro I nel 1721, quale pretendente al trono di Costantinopoli.

A sua volta l’aquila d’oro è un’antica insegna che, secondo la testimonianza di Plutarco, Caio Mario assegnò alle Legioni Romane e che veniva conservata, in tempo di pace, nel tempio di Saturno a Roma.

In questo contesto, richiama anche l’investitura di Giovanni II da parte dell’imperatore Carlo IV di “Vicarius Imperii” (Vicario Imperiale) e confermata ai suoi successori.

 

 

Nel secondo campo sono mostrate, unite, le armi di Gerusalemme e d’Aragona.

 

Il Regno Latino di Gerusalemme fu un regno cristiano istituito in Palestina dopo la I Crociata dal 1099 al 1291 (da 1187 trasferito ad Acri, quindi dal 1291 a Cipro) che comprendeva Acri e Tiro; aveva come vassalli i Regni crociati di Emessa, Antiochia e Tripoli e i sottofeudi di Krak, Galilea, Sidone, Giaffa e Ascalona. I re di Gerusalemme avevano come emblema uno scudo d’argento con una croce “del Santo Sepolcro” potenziata accantonata da quattro crocette, il tutto tradizionalmente d’oro (ma alcuni studiosi ritengono che, in origine fosse rossa, in seguito lo smalto delle miniature ossidato e metallizzato è stato interpretato come oro). La palese contraddizione con une delle regole fondamentali dell’Araldica, che vieta di mettere metallo su metallo, è stata associata alla particolare sacralità della Citta Santa.

In questo contesto rappresenta la “pretensione” degli Aleramici a quel trono: Guglielmo e Corrado, figli del marchese Guglielmo “il Vecchio”, avevano contratto matrimonio, il primo con la principessa Sibilla di Lusignano, sorella del re di Gerusalemme Baldovino IV, e madre del successore al trono gerosolimitano Baldovino V, il secondo con Elisabetta, che divenne erede al trono.

 

L’emblema di Aragona si riferisce all’omonimo regno iberico, formato dall’unione nella persona del re, del Regno d’Aragona propriamente detto (con capitale Saragozza) con la Catalogna (Contea di Barcellona). Nel 1137, la giovanissima Infanta Peronella (o Petronilla, figlia di Ramiro e Agnes di Poitou) poi ultima regina del casato d’Aragona, sposò Ramon Berenguer Conte-Principe di Barcellona (e marchese di Provenza), da quest’unione nacque Alfonso “il Casto” che divenne re d’Aragona e conte di Barcellona e che adottò per propria l’arma del Regno d’Aragona. Al nucleo originario si uniranno in seguito i territori ex saraceni del Regno di Valencia, quello di Maiorca, nonché la Corsica e la Sardegna (quest’ultima dopo aver sconfitto l’ultima dinastia dei Giudici di Arborea). Anticamente portava “d’argento alla croce piana di rosso accantonata da quattro teste di moro attorcigliate d’argento”, oggi Arma di Sardegna, secondo la tradizione concessa ai sardi come emblema dal re Giacomo I d’Aragona. L’arme qui presente, o “Aragona Moderna”  si blasona “d’oro caricato di quattro pali di rosso” che è l’arme antica del conte-re di Catalogna e Aragona che, secondo la leggenda, sarebbe nato dal gesto compiuto dal re franco Ludovico il Pio (o, secondo altri, da Carlo il Calvo) che intinse la mano nuda nel sangue di Giuffredo il Peloso di Provenza, conte di Barcellona, gravemente ferito mentre combatteva i Saraceni in Spagna, e con le dita tracciò quattro linee verticali sullo stendardo reale d’oro dicendo ai sudditi “D’ora in poi saranno queste le vostre armi” (nella realtà storica Ludovico era già morto prima della nascita di Goffredo).

Il re Giacomo d’Aragona concesse in dote alla sorella Elisabetta il regno di Maiorca allorché andò in sposa al marchese Giovanni II di Monferrato.

 

Nel terzo campo si vedono, associate, le armi di Sassonia e di Bar. Il primo è l’emblema tradizionale del ducato di Sassonia (Saxen, con la figura caratteristica del “crancelino” ossia una banda centrata (cioè in arco molto aperto, posto in banda) e ornata con foglie di ruta di smalto verde.

Vuole ricordare la (leggendaria) donazione fatta dall’imperatore Ottone di Sassonia al capostipite Aleramo.

 

Lo stemma del ducato di Bar (in Lorena) mostra due “barbi”, scelti come elemento “parlante” (o “assonante”) con il nome del territorio. Secondo la leggenda uno dei primi signori di Bar, durante una caccia infruttuosa, si trovò a passare per il villaggio di Fagine dove non trovò nulla da mangiare. Il nobile signore affamatissimo (la cronaca dice “stava per morire di fame”) era disperato ma una fata, apparsa miracolosamente gli propose due grossi barbi, guarniti di viole del pensiero. Riconoscente egli adottò le figure dei barbi come proprio stemma e le viole del pensiero per quello della sua capitale, Bar (attuale Bar-le-Duc).

La famiglia dei duchi di Bar si è diffusa anche in Italia, con i rami di Bar (o Bard), che ebbero possedimenti in Valle d’Aosta e nel Piemonte occidentale.

Guglielmo VIII di Monferrato si considerava pretendete al ducato di Bar, tale diritto risaliva al matrimonio di Giovanna, figlia di Roberto duca di Bar, con Teodoro II Paleologo

 

L’ultimo quarto mostra l’insegna degli imperatori di Costantinopoli, anche quest’arme deriva dai Paleologi. Gli imperatori bizantini portavano come insegna la croce d’oro in campo rosso (che fu anche l’insegna di Costantino) accantonata dalle quatto “beta” indicanti il motto greco “BASILEUS BASILEON BASILEUON BASILEUSI” con significato di “Re dei re, regnante sui re” equivalente aulico di “Imperatore”. Molti araldisti hanno interpretato le “Beta” come “acciarini”, forse per via della somiglianza con uno degli elementi simbolici dell’Ordine del Toson d’oro.

 

Sul tutto lo stemma di “Monferrato Antico”.

 

Durante il dominio Gonzaga venne aggiunto anche l’emblema di quella dinastia: “d’argento alla croce patente di rosso [Mantova], accantonata da quattro aquile bicipiti di nero, caricato in cuore dallo scudetto inquartato: 1 e 4 di Boemia, 2 e 3 di Gonzaga antico”.

 

La bandiera del Marchesato del Monferrato si può osservare in una miniatura trecentesca del Liber Gestorum, opera del cronista Pietro Azario. Issata su due castelli del Monferrato, riproduce lo stemma, d’argento al capo di rosso, ma con il capo spostato all’inferitura. È di forma triangolare, ma la forma all’epoca non era rilevante. In alcuni sigilli è visibile un vessillo con la striscia rossa disposta in alto come sullo stemma.

 

 

Lo stemma Challant

Secondo alcuni dallo stemma degli Aleramici del Monferrato deriverebbe anche lo stemma degli Challant di Aosta.

 

Dal primo dei lori possedimenti extraurbani presero agnome Challant nel XII secolo ed esercitarono un grande potere tra il Medioevo e il Rinascimento, periodo durante governarono gran parte della Valle d’Aosta, come vassalli dei Savoia.

 

Nel corso della storia i membri della famiglia Challant hanno dato origine a diversi rami cadetti, sparsi tra i due versanti alpini (Challant-Aymavilles, Challant-Châtillon, Challant-Cly, Challant-Ussel e Saint-Marcel, Challant-Fénis, Challant-Varey).

 

Si considera generalmente capostipite della famiglia Bosone I, citato in un documento del 1100 come Visconte di Aosta, titolo riservato al magistrato che governava la Contea di Aosta per conto dei Savoia. Bosone aveva la residenza tra Porta Beatrice e la Tourneuve, nell’XI secolo ebbe la signoria di Bard. Il nipote Bosone II, fu il primo a utilizzare il predicato “de Challant” dopo aver ricevuto dai Savoia il castello di Villa e la Signoria di Challant il 12 aprile1200, nell’odierna Val d’Ayas, di Graines, Châtillon e Cly.

 

La famiglia si estinse nel 1804 con la morte di Filippo Maurizio (nato nel 1724), ultimo discendente maschio diretto. Nel 1802 era morto a soli 7 anni Giulio Giacinto, pronipote di Filippo Maurizio. Nel 1837 morì Teresa, ultima donna della famiglia, e con lei finisce la dinastia degli Challant.

 

Lo stemma degli Challant appare effettivamente come una “variante” (tecnicamente “brisura” e, solitamente, indica una discendenza secondaria) di quello del Monferrato e si blasona “d’argento al capo di rosso alla banda in divisa di nero”. Per prestigio gli stessi membri non negarono collegamenti dinastici con gli Aleramici, alcuni arrivarono a riconoscere Bosone come figlio di Guglielmo IV o di Ranieri.

 

 

 

Nota di Bruno Fracasso e Massimo Ghirardi

 

 

Bibliografia:

 

AA.VV. DIZIONARIO DI TOPONOMASTICA. Storia e significato dei nomi geografici italiani. UTET, Torino 1997, p. 478.

 

VEXILLA ITALICA, bollettino del CISV. n. 2, 1984.

 

BOLLETTINO DEL MARCHESATO, organo di informazione del circolo culturale “I Marchesi del Monferrato” (a cura di R. Marchesi). A. III, n. 7, 2006.

Stemma Ridisegnato


Massimo Ghirardi

Stemma Ufficiale


Logo


Bozzetto originale acs/Pdc


Altre immagini




Profilo araldico


“D’argento al capo di rosso”.

Colori dello scudo:
argento, rosso
Partizioni:
capo

LEGENDA

  • stemma
  • gonfalone
  • bandiera
  • sigillo
  • città
  • altro
  • motto
  • istituzione nuovo comune

Informazioni

Il Monferrato (Mons Ferratus, in latino: Monferrat in francese) è una regione storica corrispondente, pressoché per intero, all’omonimo marchesato “Aleramico”.

 

Il suo territorio, caratterizzato da colline coltivate perlopiù a viti, è suddiviso attualmente tra le Province di Alessandria e Asti, e si estende verso sud a partire dalla destra idrografica del fiume Po sino a raggiungere l’Appennino Ligure al confine con il territorio della Città Metropolitana di Genova e la provincia di Savona. Inoltre confina con altre regioni geografiche e storiche del Piemonte appartenenti oggi alla provincia di Cuneo: le Langhe e il Roero, e a nord-est con la Lomellina.

 

Il giorno 22 giugno 2014, durante la 38ª sessione del comitato UNESCO a Doha, è stato ufficialmente incluso, assieme a Langhe e Roero, nella lista territori “beni del Patrimonio dell’Umanità”.

 

Sull’etimologia del coronimo Monferrato non c’è certezza assoluta: alcune ipotesi sono piuttosto fantasiose, Aldo di Ricaldone lo fa derivare dall’unione di “mons” e “farratus” (“monte coltivato a farro”); altri da “mons ferax“, cioè monte fertile e ricco; altri ancora farebbe riferimento alle armi abbandonate dai Romani nelle numerose battaglie per la conquista, da cui “mons ferratus” (monte dei ferri). La più nota, ma non per questo verosimile, vuole che il nobile Aleramo, capostipite dei signori del Monferrati, volendo riferrare un cavallo velocemente e non trovando i materiali adatti, al posto del martello usò un mattone (“mun” in dialetto monferrino) e così il cavallo fu ferrato “frà“: da qui il Munfrà, secondo una nota leggenda che vi diremo di seguito.

 

Una teoria accreditata, proposta da Aldo A. Settia, fa riferimento ai numerosi toponimi simili diffusi tra Piemonte e Lombardia Occidentale, indicando la presenza di un tipo di terreno detto “ferrétto“: argilloso e ricco di minerali ferrosi.

 

Anche sull’origine della dinastia degli Aleramici non ci sono certezze: secondo la leggenda Aleramo, capostipite della casata, fu un discendente di Teodorico di Frisia (o, secondo altri, addirittura dei signori del Kent). Sulla sua vicenda persino Giosuè Carducci si interessò, scrivendone la versione più nota (in “Cavalleria e Umanesimo”).

 

Aleramo (il cui antroponimo significa “persona allegra”) sarebbe nato da genitori germanici presso Acqui Terme, nell’abbazia di Santa Giustina di Sezzadio, mentre i genitori vi si trovavano alloggiati durante un loro pellegrinaggio diretti a Roma. Rimasto ben presto orfano venne arruolato nell’esercito imperiale di Ottone I di Sassonia, alla cui corte conobbe la di lui figlia Adelasia (o Alasia) della quale si innamorò perdutamente venendo da lei ricambiato. Data la differenza di lignaggio il matrimonio tra i due era impossibile per cui i due giovani fuggirono per rifugiarsi nel Monferrato, nella fuga usarono lei un cavallo bianco e lui uno di manto rossiccio (da quelli sarebbero derivati i colori dello stemma Aleramici: “d’argento, al capo di rosso”).

 

A matrimonio avvenuto ottennero il perdono dell’imperatore il quale concesse agli sposi tante terre quante Aleramo fosse riuscito a percorrerne cavalcando senza sosta in un giorno. Il territorio che egli riuscì a perimetrare divenne il Monferrato: il cui nome deriverebbe dai termini monferrini mun (mattone) e da frà (ferrare), ovvero dal mattone utilizzato per riferrare il cavallo che Aleramo utilizzò per l’impresa.

 

Secondo il documento del 961 con l’elenco possedimenti dei quali venne dotato il monastero di Grazzano, Aleramo era figlio di tale conte Guglielmo, un nobile di stirpe franca, giunto in Italia nell’888 al seguito del duca longobardo Guido II di Spoleto e documentato presso la corte del re d’Italia Rodolfo II di Borgogna nel 924

 

La prima citazione di una famiglia aleramica, o almeno di una parte di essa, stabilmente insediata, compare nel Cartulario dell’abbazia di Montieramey dell’anno 837 dove è citato Aleramo, conte di Troyes (ma noto anche come Alerano di Barcellona), signore di un territorio settentrionale del ducato di Borgogna, valente capo. Fedele di re Ludovico il Pio e, dopo di lui, di Carlo il Calvo, combatté con successo gli arabi in Catalogna nell’850, venendo quindi incaricato di sedare la rivolta promossa da Bernardo I di Tolosa duca di Settimania, riuscendo nell’impresa ma perdendovi la vita.

 

Il padre dell’Aleramo italiano, Guglielmo, compare al seguito del duca Guido di Spoleto nel suo ritorno in Italia, dopo l’infruttuosa campagna per ottenere la corona di Francia, nell’anno 888. Le origini familiari di Adelasia, prima moglie di Aleramo e progenitrice degli aleramici, restano invece sconosciute. Certo è che Aleramo sposò successivamente la nobile Gerberga, figlia di Berengario II re d’Italia, matrimonio che gli consentì di acquisire il titolo marchionale fra il 958 e il 961.

 

Fondatore delle dinastie che, da lui, verranno detta “aleramiche” godeva di grande prestigio sia presso Ugo di Provenza (definito da questi in una donazione “fidelis noster Alledramus“), sia presso Lotario II d’Italia e Berengario II d’Ivrea, come pure presso Ottone I. Ricevette diverse donazioni di terre, che si aggiunsero ai beni che già posseduti nel Vercellese e in Lombardia, e il titolo di “marchese” (cioè “governatore militare” di una Marca) da Berengario II. Peraltro, lo stesso Berengario, come Aleramo, discendeva da una casata marchionale di origine franca, gli Anscarici, esule in Italia al seguito di Guido di Spoleto. Entrambi avevano mantenuto stretti legami con la corte dei re di Borgogna, tanto che Aleramo fu un favorito della regina Adelaide di Borgogna, moglie dell’imperatore Ottone I di Sassonia, la quale gli consentì di passare indenne attraverso la sconfitta di Berengario e l’assunzione del trono italico da parte dell’imperatore germanico che, nel 967, gli  donò un vasto territorio compreso tra il fiume Orba e il Tanaro, fino al confine con il territorio di Savona. Si trattava, in realtà, di una plaga selvosa e incolta devastata nel periodo precedente dalle incursioni dei cosiddetti “saraceni” e per questo noto come “Guasto” o “Vasto”, che darà agnome ad una ramo degli Aleramici. L’investitura formale giunse dopo che Aleramo aveva ottenuto una grande vittoria contro i saraceni in una battaglia presso l’odierna Acqui Terme, dando sicurezza agli abitanti.

 

Entro quest’area si trovavano alcune città vescovili, come Savona o Acqui, retti dal vescovo-conte e dotati di grande autonomia e, al momento dell’investitura di Aleramo, il resto territorio circostante risultava diviso in due grandi Marche: a nord quella di Ivrea e a sud, fra Torino e Ventimiglia, quella del marchese di Torino Arduino “il Glabro”.

 

Alla fine dell’XI secolo, dopo circa un secolo dalla morte di Aleramo, la discendenza si diramava in tre rami principali:

  • I marchesi di Monferrato, discendenti da Ottone. I loro beni patrimoniali erano concentrati a nord del fiume Tanaro.
  • I marchesi del Bosco, discendenti da Anselmo. I loro beni patrimoniali erano collocati fra Alessandria ed Albisola
  • I marchesi Del Vasto, anch’essi discendenti da Anselmo. Essi avevano ereditato i territori aleramici fra Asti e Savona e vi unirono alcuni beni degli “arduinici” fra Saluzzo e Albenga.

 

La linea dei marchesi del Monferrato, il primo ad essere citato come “Marchese” di Monferrato sarà Ranieri nel 1111, si estinse nel 1305, e vennero sostituiti dai bizantini Paleologi che confluiranno nei Gonzaga di Mantova nel 1536. I Savoia prenderanno pieno possesso del marchesato nel 1708 quando il Ducato di Mantova fu occupato dalle truppe imperiali di Leopoldo I d’Asburgo.

 

L’ampio dominio di Bonifacio, “il più famoso marchese d’Italia”, secondo il cronista Goffredo Malaterra, fu suddiviso fra i suoi sette figli dando origine a un gran numero di linee dinastiche: i marchesi di Saluzzo, quelli di Busca e Lancia, quelli di Ceva e Clavesana, quelli di Savona e quelli di Incisa.

 

Per la maggior parte della sua esistenza, il marchesato fu suddiviso in due grandi aree separate: l’Alto Monferrato meridionale, con capoluogo Aqui Terme e il Basso Monferrato settentrionale con capoluogo Casale (oggi Casale Monferrato).

Lo stemma del Marchesato di Monferrato si è modificato in seguito alle complesse vicende storiche fino a mostrare i diversi territori che si sono legati alla storia monferrina. Elevato dall’imperatore in ducato nel 1575 finì per passare ai Savoia nel 1713 con il trattato di Utrecht.

Lo stemma “di Monferrato Moderno” si blasona: “Inquartato: nel primo di rosso all’aquila bicipite d’oro; nel secondo partito: a) d’argento alla croce potenziata d’oro, accantonata da quattro crocette dello stesso, b) d’oro a quattro bastoni di rosso; nel terzo partito: a) fasciato di otto pezzi d’oro e di nero, al crancelino di verde attraversante, b) d’azzurro seminato di crocette pomettate e pieficcate, ai due barbi addossati posti in palo, il tutto d’oro; nel quarto di rosso alla croce d’oro, accantonata da quattro “B” [beta] addossate dello stesso. Sul tutto in cuore d’argento al capo di rosso”.

 

Il primo campo mostra l’aquila imperiale dell’Impero Romano Bizantino dello stemma della casa imperiale dei Paleologo, che furono la famiglia imperiale di Bisanzio fino al 1455, derivata dall’aquila imperiale romana con “due teste” (bicipite), delle quali una volta a destra e l’altra a sinistra. La tradizione vuole che sia stata istituita da Costantino I nel 330, quando trasferì la sede imperiale a Costantinopoli, a significare “che egli teneva sotto la stessa corona un unico Impero con due capitali” (P. Guelfi Camajani). Si ritiene che l’aquila bicipite d’oro in campo rosso rappresenti l’Impero d’Oriente, mentre quella nera in campo d’oro quello d’Occidente (attualmente l’aquila bicipite in campo oro è anche l’emblema della Chiesa Ortodossa e del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli).

Caduto l’Impero Bizantino della dinastia dei Paleologi nel 1453, l’aquila imperiale fu adottata dallo zar Pietro I nel 1721, quale pretendente al trono di Costantinopoli.

A sua volta l’aquila d’oro è un’antica insegna che, secondo la testimonianza di Plutarco, Caio Mario assegnò alle Legioni Romane e che veniva conservata, in tempo di pace, nel tempio di Saturno a Roma.

In questo contesto, richiama anche l’investitura di Giovanni II da parte dell’imperatore Carlo IV di “Vicarius Imperii” (Vicario Imperiale) e confermata ai suoi successori.

 

 

Nel secondo campo sono mostrate, unite, le armi di Gerusalemme e d’Aragona.

 

Il Regno Latino di Gerusalemme fu un regno cristiano istituito in Palestina dopo la I Crociata dal 1099 al 1291 (da 1187 trasferito ad Acri, quindi dal 1291 a Cipro) che comprendeva Acri e Tiro; aveva come vassalli i Regni crociati di Emessa, Antiochia e Tripoli e i sottofeudi di Krak, Galilea, Sidone, Giaffa e Ascalona. I re di Gerusalemme avevano come emblema uno scudo d’argento con una croce “del Santo Sepolcro” potenziata accantonata da quattro crocette, il tutto tradizionalmente d’oro (ma alcuni studiosi ritengono che, in origine fosse rossa, in seguito lo smalto delle miniature ossidato e metallizzato è stato interpretato come oro). La palese contraddizione con une delle regole fondamentali dell’Araldica, che vieta di mettere metallo su metallo, è stata associata alla particolare sacralità della Citta Santa.

In questo contesto rappresenta la “pretensione” degli Aleramici a quel trono: Guglielmo e Corrado, figli del marchese Guglielmo “il Vecchio”, avevano contratto matrimonio, il primo con la principessa Sibilla di Lusignano, sorella del re di Gerusalemme Baldovino IV, e madre del successore al trono gerosolimitano Baldovino V, il secondo con Elisabetta, che divenne erede al trono.

 

L’emblema di Aragona si riferisce all’omonimo regno iberico, formato dall’unione nella persona del re, del Regno d’Aragona propriamente detto (con capitale Saragozza) con la Catalogna (Contea di Barcellona). Nel 1137, la giovanissima Infanta Peronella (o Petronilla, figlia di Ramiro e Agnes di Poitou) poi ultima regina del casato d’Aragona, sposò Ramon Berenguer Conte-Principe di Barcellona (e marchese di Provenza), da quest’unione nacque Alfonso “il Casto” che divenne re d’Aragona e conte di Barcellona e che adottò per propria l’arma del Regno d’Aragona. Al nucleo originario si uniranno in seguito i territori ex saraceni del Regno di Valencia, quello di Maiorca, nonché la Corsica e la Sardegna (quest’ultima dopo aver sconfitto l’ultima dinastia dei Giudici di Arborea). Anticamente portava “d’argento alla croce piana di rosso accantonata da quattro teste di moro attorcigliate d’argento”, oggi Arma di Sardegna, secondo la tradizione concessa ai sardi come emblema dal re Giacomo I d’Aragona. L’arme qui presente, o “Aragona Moderna”  si blasona “d’oro caricato di quattro pali di rosso” che è l’arme antica del conte-re di Catalogna e Aragona che, secondo la leggenda, sarebbe nato dal gesto compiuto dal re franco Ludovico il Pio (o, secondo altri, da Carlo il Calvo) che intinse la mano nuda nel sangue di Giuffredo il Peloso di Provenza, conte di Barcellona, gravemente ferito mentre combatteva i Saraceni in Spagna, e con le dita tracciò quattro linee verticali sullo stendardo reale d’oro dicendo ai sudditi “D’ora in poi saranno queste le vostre armi” (nella realtà storica Ludovico era già morto prima della nascita di Goffredo).

Il re Giacomo d’Aragona concesse in dote alla sorella Elisabetta il regno di Maiorca allorché andò in sposa al marchese Giovanni II di Monferrato.

 

Nel terzo campo si vedono, associate, le armi di Sassonia e di Bar. Il primo è l’emblema tradizionale del ducato di Sassonia (Saxen, con la figura caratteristica del “crancelino” ossia una banda centrata (cioè in arco molto aperto, posto in banda) e ornata con foglie di ruta di smalto verde.

Vuole ricordare la (leggendaria) donazione fatta dall’imperatore Ottone di Sassonia al capostipite Aleramo.

 

Lo stemma del ducato di Bar (in Lorena) mostra due “barbi”, scelti come elemento “parlante” (o “assonante”) con il nome del territorio. Secondo la leggenda uno dei primi signori di Bar, durante una caccia infruttuosa, si trovò a passare per il villaggio di Fagine dove non trovò nulla da mangiare. Il nobile signore affamatissimo (la cronaca dice “stava per morire di fame”) era disperato ma una fata, apparsa miracolosamente gli propose due grossi barbi, guarniti di viole del pensiero. Riconoscente egli adottò le figure dei barbi come proprio stemma e le viole del pensiero per quello della sua capitale, Bar (attuale Bar-le-Duc).

La famiglia dei duchi di Bar si è diffusa anche in Italia, con i rami di Bar (o Bard), che ebbero possedimenti in Valle d’Aosta e nel Piemonte occidentale.

Guglielmo VIII di Monferrato si considerava pretendete al ducato di Bar, tale diritto risaliva al matrimonio di Giovanna, figlia di Roberto duca di Bar, con Teodoro II Paleologo

 

L’ultimo quarto mostra l’insegna degli imperatori di Costantinopoli, anche quest’arme deriva dai Paleologi. Gli imperatori bizantini portavano come insegna la croce d’oro in campo rosso (che fu anche l’insegna di Costantino) accantonata dalle quatto “beta” indicanti il motto greco “BASILEUS BASILEON BASILEUON BASILEUSI” con significato di “Re dei re, regnante sui re” equivalente aulico di “Imperatore”. Molti araldisti hanno interpretato le “Beta” come “acciarini”, forse per via della somiglianza con uno degli elementi simbolici dell’Ordine del Toson d’oro.

 

Sul tutto lo stemma di “Monferrato Antico”.

 

Durante il dominio Gonzaga venne aggiunto anche l’emblema di quella dinastia: “d’argento alla croce patente di rosso [Mantova], accantonata da quattro aquile bicipiti di nero, caricato in cuore dallo scudetto inquartato: 1 e 4 di Boemia, 2 e 3 di Gonzaga antico”.

 

La bandiera del Marchesato del Monferrato si può osservare in una miniatura trecentesca del Liber Gestorum, opera del cronista Pietro Azario. Issata su due castelli del Monferrato, riproduce lo stemma, d’argento al capo di rosso, ma con il capo spostato all’inferitura. È di forma triangolare, ma la forma all’epoca non era rilevante. In alcuni sigilli è visibile un vessillo con la striscia rossa disposta in alto come sullo stemma.

 

 

Lo stemma Challant

Secondo alcuni dallo stemma degli Aleramici del Monferrato deriverebbe anche lo stemma degli Challant di Aosta.

 

Dal primo dei lori possedimenti extraurbani presero agnome Challant nel XII secolo ed esercitarono un grande potere tra il Medioevo e il Rinascimento, periodo durante governarono gran parte della Valle d’Aosta, come vassalli dei Savoia.

 

Nel corso della storia i membri della famiglia Challant hanno dato origine a diversi rami cadetti, sparsi tra i due versanti alpini (Challant-Aymavilles, Challant-Châtillon, Challant-Cly, Challant-Ussel e Saint-Marcel, Challant-Fénis, Challant-Varey).

 

Si considera generalmente capostipite della famiglia Bosone I, citato in un documento del 1100 come Visconte di Aosta, titolo riservato al magistrato che governava la Contea di Aosta per conto dei Savoia. Bosone aveva la residenza tra Porta Beatrice e la Tourneuve, nell’XI secolo ebbe la signoria di Bard. Il nipote Bosone II, fu il primo a utilizzare il predicato “de Challant” dopo aver ricevuto dai Savoia il castello di Villa e la Signoria di Challant il 12 aprile1200, nell’odierna Val d’Ayas, di Graines, Châtillon e Cly.

 

La famiglia si estinse nel 1804 con la morte di Filippo Maurizio (nato nel 1724), ultimo discendente maschio diretto. Nel 1802 era morto a soli 7 anni Giulio Giacinto, pronipote di Filippo Maurizio. Nel 1837 morì Teresa, ultima donna della famiglia, e con lei finisce la dinastia degli Challant.

 

Lo stemma degli Challant appare effettivamente come una “variante” (tecnicamente “brisura” e, solitamente, indica una discendenza secondaria) di quello del Monferrato e si blasona “d’argento al capo di rosso alla banda in divisa di nero”. Per prestigio gli stessi membri non negarono collegamenti dinastici con gli Aleramici, alcuni arrivarono a riconoscere Bosone come figlio di Guglielmo IV o di Ranieri.

 

 

 

Nota di Bruno Fracasso e Massimo Ghirardi

 

 

Bibliografia:

 

AA.VV. DIZIONARIO DI TOPONOMASTICA. Storia e significato dei nomi geografici italiani. UTET, Torino 1997, p. 478.

 

VEXILLA ITALICA, bollettino del CISV. n. 2, 1984.

 

BOLLETTINO DEL MARCHESATO, organo di informazione del circolo culturale “I Marchesi del Monferrato” (a cura di R. Marchesi). A. III, n. 7, 2006.

Stemma Ridisegnato


Massimo Ghirardi

Stemma Ufficiale


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Bozzetto originale acs/Pdc


Altre immagini




Profilo araldico


“D’argento al capo di rosso”.

Colori dello scudo:
argento, rosso
Partizioni:
capo

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